Ieri il primo ministro iracheno, Adel Abdul Mahdi, ha accusato Israele di aver compiuto gli ultimi attacchi contro basi delle milizie sciite in Iraq.
Quella del premier iracheno segue altre denunce simili fatte prima di lui dai vertici siriani e da quelli libanesi.
A parte il fatto che Israele ha confermato solo qualche attacco in Siria e per quanto riguarda gli attacchi in Iraq non ha né smentito né confermato anche se Netanyahu qualche tempo fa non aveva escluso la possibilità di colpire le milizie sciite «ovunque operassero», quindi anche in Iraq.
Poi c’è la responsabilità oggettiva dei governanti di Iraq, Siria e Libano che non dovrebbe essere sottovalutata.
Se tu ospiti scientemente gruppi terroristici legati all’Iran che dichiarano di voler attaccare Israele il minimo che ti puoi aspettare è che gli israeliani cerchino di impedirtelo.
La denuncia del premier iracheno, già ridicola si suo in quanto parla di “indagini” che hanno portato a quella conclusione (ma quali indagini, quali prove), diventa persino una ammissione di colpa.
L’Iraq ospita gruppi terroristici legati all’Iran e lo fa coscientemente, ben sapendo quali sono i loro obiettivi: Israele prima di tutto, poi gli altri Paesi del Golfo che si oppongono all’espansionismo iraniano.
La cosa strana non è quindi che Israele avrebbe (condizionale) attaccato postazioni e basi di miliziani sciiti legati a Teheran in Iraq, quanto piuttosto che Baghdad ammetta che milizie sciite legate all’Iran operino sul suo territorio.
Ci si dovrebbe meravigliare piuttosto del fatto che la comunità internazionale, da cui l’Iraq ancora dipende per tanti motivi, rimanga bellamente in silenzio di fronte a tali affermazioni e ammissioni da parte irachena.
Possibile che nessuno faccia notare ad Adel Abdul Mahdi che ospitare basi iraniane in territorio iracheno mette in grave pericolo anche la sua popolazione?
È lo stesso discorso che si faceva tempo fa soprattutto per il Libano (ma vale anche per la Siria). Ospitare milizie legate all’Iran ha un costo che può diventare pesante sia in termini economici che, in caso di guerra, in termini di vite umane.
In Libano cominciano a capirlo, in Iraq e in Siria purtroppo ancora no.