Perché un giornalista morto in Israele è diverso da tutti gli altri?

Gli Stati Uniti si sono addirittura permessi di “consigliare” all’IDF di rivedere le regole di ingaggio

Sono circa una quarantina i giornalisti uccisi mentre svolgevano il loro lavoro nella guerra tra Russia e Ucraina, un centinaio quelli feriti (i dati non sono precisi). Eppure nessuno ne fa il minimo cenno a differenza invece dell’uccisione accidentale della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh, uccisa sembra dall’eserciti israeliano (IDF) durante una sparatoria con terroristi palestinesi lo scorso 11 maggio. Di questo invece ne parla mezzo mondo tanto che stava per innescare un durissimo scontro diplomatico tra Stati Uniti e Israele.

Perché una giornalista palestinese, che per il suo lavoro di giornalista di guerra sa di rischiare la vita, è diversa dagli altri giornalisti di guerra? Anzi, formulo meglio: perché un/una giornalista di guerra uccisa in Israele, in Giudea e Samaria (la c.d. Cisgiordania) o a Gaza è diverso//a da qualsiasi altro giornalista ucciso in qualsiasi altro teatro di guerra al mondo?

È da quel 11 maggio che attorno all’uccisione accidentale di Shireen Abu Akleh da parte dell’IDF impegnato in uno scontro a fuoco con alcuni terroristi palestinesi, si è aperto contro Israele e l’esercito israeliano una specie di processo mondiale.

Gli Stati Uniti (la vittima era anche cittadina statunitense) sono arrivati addirittura a permettersi di chiedere a Israele, attraverso il Dipartimento di Stato, che le regole d’ingaggio dell’IDF venissero riviste. Una inopportuna e grave intrusione negli affari interni di Gerusalemme, come ha fatto giustamente notare il Premier israeliano Yair Lapid che ha parlato di “tentativo da parte americana di dettare le politiche israeliane”.

Ieri attraverso un comunicato il Dipartimento di Stato americano ha fatto marcia indietro: «Nessuno conosce i processi e le procedure dell’IDF meglio dell’IDF, quindi non spetta a noi o a nessun altro paese o entità dire esattamente cosa dovrebbero fare l’IDF o qualsiasi organizzazione militare o di sicurezza in tutto il mondo», ha dichiarato il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price.

Però la frittata era fatta e ancora una volta Israele è stato trattato in maniera peggiore di qualsiasi altro stato al mondo, sebbene proprio una inchiesta israeliana avesse stabilito le responsabilità dell’IDF a dimostrare che nello Stato Ebraico non hanno bisogno di insegnamenti da nessuno né per quanto riguarda la democrazia né per scoprire qualsiasi verità, anche le più scomode.

Eppure, tornando alla domanda iniziale, se succede qualcosa ad un palestinese in Israele o in uno dei territori palestinesi il fatto assume ridondanza mondiale, spesso accompagnato da una buona dose di fake news. Perché? Perché una giornalista palestinese uccisa accidentalmente dagli israeliani vale più di 40 giornalisti uccisi (magari deliberatamente) nella guerra tra Russia e Ucraina?

La risposta sta proprio in quel nome, Israele, un nome che secondo alcuni (purtroppo molti) non dovrebbe nemmeno esistere, un popolo e uno Stato che non dovrebbero esserci.

Non è quindi il soggetto palestinese a fare la differenza, è dove il fatto avviene a farla, è chi ne è l’attore principale a farla.

Sbagliano coloro che pensano che a fare la differenza sia la natura palestinese della vittima, se fosse stata cinese sarebbe stata la stessa cosa. È Israele a farla, è lo Stato Ebraico, è il fatto che ci sia coinvolto l’IDF, non l’essere palestinese della vittima.

E poi dicono che l’antisemitismo sia morto. Non lo è nemmeno tra i migliori alleati di Israele, altro che morto.

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