Nella seconda metà del 2017 la liberazione di Mosul e la seguente riconquista delle cittadine di Tal Afar e Hawija per mano delle Forze di sicurezza irachene hanno eliminato le ultime sacche di resistenza di Daesh lungo la frontiera con la Siria, palesandone così un progressivo arretramento territoriale.
Le parole del primo ministro Haider al-Abadi hanno fatto riferimento al risveglio di un sentimento di unità nazionale a lungo sommerso, ma questi toni eccessivamente ottimistici non tengono conto di una realtà fattuale molto più intricata dato che, con tutta probabilità, l’ordine interno dell’Iraq presenta un numero ancora maggiore di incognite rispetto al periodo post-Saddam.
Sta già andando sgretolandosi l’idea di un Paese unito verso un’imminente riappacificazione, la quale ha retto solo fintanto che l’esigenza di far fronte comune contro la minaccia jihadista ha potuto velare la fragilità dello status quo iracheno.
Al contrario, la fine dell’escalation militare non significa l’eliminazione totale del tentacolare Califfato, né tanto meno un valido motivo per sottovalutare una tanto attendibile riemersione delle medesime problematiche che da oltre un ventennio affliggono l’Iraq.
“Il sogno della liberazione” pare, almeno nel breve termine, destinato a rimanere tale poiché, nonostante la sconfitta schiacciante subita, la mutevolezza di un attore come ISIS seguita a mantenere accesi numerosi campanelli d’allarme a Baghdad che ha continuato a registrare attentati terroristici.
Rimane perciò chiara la strategia dei seguaci di Al-Baghdadi di ricorrere al terrore ogni qual volta sia necessaria per rimarcare la propria presenza sul territorio e la propria capacità di inserirsi tra le fila della popolazione civile.
All’incognita generata da questo tipo di attacchi si aggiunge anche il repentino cambio di rotta, che sembra muoversi su linee guida molto più pragmatiche e mirate a preservare il capitale umano. È un ISIS in evoluzione, che sa aspettare il momento politico propizio, che ha imparato a calcolare i rischi quantitativi e che continua a godere di grande appeal ideologico nel mondo sunnita. La direttrice potrebbe essere quella di tornare alle origini di movimento insurrezionale violento, lasciando da parte la dispendiosa traccia proto-statuale basata sulla conquista di roccaforti simboliche e delegando i foreign fighters a tener vivi i focolai jihadisti.
A minacciare l’integrità statale dell’Iraq non è solo la bandiera nera del Califfato, bensì anche quell’endemica instabilità interna che già aveva predisposto un terreno fertile per la radicazione del seme estremista.
L’imprevedibilità del futuro iracheno è incrementata dalla stabile presenza sul palcoscenico post-conflittuale dei numerosi attori che dal 2014 hanno preso parte alla resistenza e che difficilmente lasceranno il Paese senza prima essersi assicurati una sfera di influenza. L’ allarmante mancanza di leader politici che ne deriva è il riflesso diretto dell’eterogeneità ideologico-religiosa delle anime del paese che non sono in grado di condensare i desideri di una società a lungo lontana dal dibattito politico.
Il premier Abadi punta a ricandidarsi con la sua nuova Victory Alliance, orfana però in partenza del tanto sperato appoggio delle altre figure dominanti. Infatti, il leader militare al-Amiri ed il capo del Consiglio supremo islamico Ammar al-Hakim hanno dato vita alla Coalizione Fatah. Questo partito guidato da Falah al-Khazali, considerato un fantoccio che l’Iran punterebbe a rimodellare in stile Hezbollah, rappresenta un elemento di rottura settaria che rinnova i timori di esclusione della comunità sunnita.
La questione curda

Festeggiamenti per la liberazione di Mosul
La questione curda, divenuta di secondo grado con l’avvento del conflitto, non ha tardato a riaccendersi. La partita si gioca tra la volontà del Kurdistan di dar atto al significativo referendum consultivo per l’indipendenza (92,7%) e la forte repressione del governo iracheno, comprensibilmente deciso a quietare le spinte secessioniste per salvaguardare la propria integrità.
Paradossalmente, la sopraffazione dell’esercito regolare per mano dei guerriglieri dell’ISIS ha rappresentato un’occasione irripetibile per l’espansione territoriale dei Peshmerga curdi nell’area che si estende lungo il confine iracheno e che include diverse province, tra cui quella fruttuosa di Kirkuk.
Quest’ultima è al centro di una contesa che dimostra quanto il Kurdistan sia rilevante nelle mire geopolitiche e geo-economiche degli attori mediorientali. Formalmente queste aree ricche di petrolio sono sotto la giurisdizione di Baghdad, ma da tempo gran parte dei pozzi sono de facto in mano ai due partiti che si contendono lo spazio politico curdo. Da un lato il flusso di denaro è gestito dal maggioritario Kdp (Partito democratico del Kurdistan) di Massoud Barzani, sempre più promotore di un’indipendenza assoluta. Dall’altro, l’amministrazione locale di Kirkuk spetta invece al partito di opposizione Puk (Unione patriottica del Kurdistan) di Jalal Talabani, che necessita invece del sostegno iraniano. Con ogni probabilità, i sogni di gloria della secessione curda si sono infranti contestualmente al riavvicinamento tra i leader del Puk e dei Pasdaran (le Guardie Rivoluzionarie sciite) che ha allontanato le milizie Peshmerga e aperto un’agevole canale per un ritorno delle truppe irachene a Kirkuk.
Dei paesi esterni interessati, l’Iran è da sempre la potenza regionale più vicina a Baghdad e sostiene il ritorno dell’ex premier sciita Nouri al-Maliki. In risposta, il vivace saudita Mohammed bin-Salman sta cercando in ogni modo di instaurare rapporti bilaterali con l’Iraq per quantomeno arginare la minaccia persiana. Turchia e USA si trovano allineati nei rinnovati rapporti con il governo centrale per la lotta al terrorismo e nell’ostilità alla potenza iraniana, ma divisi nel sostegno al fronte antireferendario, con Ankara che si dimostra più agguerrita in prospettiva anti-curda. All’inverso la Russia punta ad ingraziarsi il Kurdistan stipulando degli accordi commerciali con Erbil, ma il disengagement di Washington potrebbe accrescere gli interessi di Mosca. Molto attivo tra i Paesi del Golfo è il Kuwait che ha avviato un programma di investimenti destinati alla ricostruzione materiale dell’Iraq. Non per ultima, la Siria di Assad segue con attenzione ogni sviluppo per capire quale alleato potrà garantire la migliore protezione contro le pressioni dei curdi siriani.
Non è da escludere, dunque, che anche questa volta non sarà il solo popolo iracheno a decidere monoliticamente le proprie sorti. Sarà piuttosto l’insieme di tutte le variabili in gioco ad indirizzare questo periodo di transizione. È pertanto evidente che una soluzione senza disequilibri non possa attualmente concretizzarsi poiché la regressione dello Stato Islamico ha lasciato dietro di sé uno spazio minaccioso per l’Iraq: gli attori esogeni sono interessati a rimanere, le conflittualità tradizionali si sono risvegliate e l’ombra del settarismo incombe nuovamente sul discorso politico. Le elezioni di maggio 2018 diranno se il “nuovo” Iraq sarà pronto ad accogliere una riconciliazione nazionale unitaria per trovare, finalmente, una via per la democrazia.
[alert]Samuele Carlo Ayrton Abrami. Classe 1995, laureato in Scienze Linguistiche per le Relazioni Internazionali presso l’Università Cattolica di Brescia/Milano, ha partecipato al progetto CWMUN alla sede ONU di New York. Si interessa prevalentemente dei processi geopolitici e culturali del MENA, oltre che dei diritti umani nel mondo[/alert]
Bibliografia
- O’Hanlon, Michael E., and Sara Allawi. ‘How to Avoid an ISIS 2.0 in Iraq’, Markaz [BLOG], (2017).
- Jeffrey, James, Denise Natali, Wa’el Alzayat, et al. ‘Post‐ISIS Iraq and Syria: Avoiding Chaos’, Middle East Policy, vol. 24/no. 3, (2017), pp. 5-33.
- Natali, Denise. ‘Syria’s Spillover on Iraq: State Resilience’, Middle East Policy, vol. 24/no. 1, (2017), pp. 48-61.
- Review of Danilovich, A. (Ed.). (2017). Iraqi Kurdistan in Middle Eastern Politics. London: Routledge.