In Medio Oriente la situazione è più calda che mai e, per evidenti ragioni politiche ed umanitarie, il conflitto siriano sta richiamando l’attenzione di tutto il mondo, ma purtroppo tale area non deve fare i conti solamente con questo disastroso conflitto.
I focolai pericolosi sono molti e si estendono dalle coste del Mediterraneo sino al cuore della Mezzaluna fertile. È proprio in questa cornice di perdurante instabilità che si inserisce lo scontro politico, ideologico e militare tra due potenze regionali da sempre in lotta nella diatriba sciiti-sunniti: Iran e Arabia Saudita.
Nonostante Teheran e Riyadh abbiano un approccio ideologico generalmente agli antipodi, è evidente che la loro politica estera si muova lungo un filo conduttore che induce a scendere in campo nei medesimi contesti esterni. Questa comunanza negli intenti geopolitici ha portato a rianimare nel Golfo una tipologia di scontro che sembrava essersi calmierata dopo la nuova redistribuzione di potenza nel Medio Oriente post 11 settembre.
Invece, aggiungendosi ai sovvertimenti provocati dalle Primavere arabe, il tentennare degli USA e la nuova linea della Russia di Putin hanno ridato spazio d’azione ai due grandi egemoni regionali che si trovano attualmente di fronte ad uno scenario in cui l’islamismo, il settarismo e l’identità araba sono tornati con decisione a fermentare la “Nuova Guerra Fredda del Medio Oriente”.
Il balletto delle alleanze e gli attori non-statali
Sin dai tempi della Rivoluzione, l’obbiettivo iraniano di esportare il komeinismo ha insistito nel voler modificare l’ordine regionale con una certa noncuranza delle conseguenze destabilizzanti. Escludendosi dalla questione etnica, la storica alleanza politica e militare con la Siria fa leva sull’eredità condivisa con la branca minoritaria dello sciismo alawita, di cui è parte la famiglia Assad. Internazionalmente, il periodo dell’invasione russa dell’Afghanistan ha promosso un avvicinamento a Mosca che vede nell’alleato persiano un attore fondamentale per contrastare l’ordine mediorientale fondato sull’ asse Riyadh-Washington-Gerusalemme.
Pertanto la dinastia Saud mira per prima cosa a contenere l’espansionismo iraniano e, nondimeno, ad attuare il più possibile una buona politica di vicinato per rinsaldare il proprio status quo. In questo senso, viene incessantemente alimentata la questione settaria alla ricerca di unitarietà nel mondo arabo-sunnita.
Sono perciò chiare le ragioni per cui l’Arabia Saudita abbia forgiato delle alleanze tradizionalmente ben definite con Egitto, Iraq, Giordania, Libano, Pakistan, Yemen, ed abbia consolidato i vari accordi con le monarchie vicine nell’organizzazione del GCC. Il Consiglio di Cooperazione del Golfo, oltre ad essere un progetto unificatore e di reciproco sostegno, rappresenta un collante diretto con le istituzioni occidentali che, con gli Stati Uniti al primo posto, hanno a lungo sostenuto la sua realizzazione per arginare dapprima la minaccia irachena ed in seguito quella iraniana.
Al di fuori dei rapporti consuetudinari, ciò che invece accomuna Iran e Arabia Saudita è senz’altro il sostegno di entrambe ad attori non statali o non riconosciuti dalla comunità internazionale e, talvolta, a singoli partiti o movimenti d’opposizione all’interno degli stati in cui vi è una carente centralizzazione del potere.
Iraq
In Iraq, in seguito all’intervento statunitense di de-ba’athification che ha rovesciato il regime del sunnita Saddam Hussein in favore della maggioranza sciita, il risorgere dello scontro settario ha portato allo sgretolamento di un potere centrale forte, rendendo de facto l’Iraq uno stato fallito incapace di controllare i propri confini.
Tale vuoto politico ha riacceso le ideologie islamiste ed estremizzato la polarizzazione tra i partecipanti alla spartizione del potere. È stato inevitabile che Iran e Arabia Saudita prendessero una posizione attiva, rispettivamente a difesa di sciiti e sunniti. Da un lato gli ideali rivoluzionari iraniani e la visione dell’Iraq come custode della storia sciita hanno trovato riscontro pratico nell’elezione di al-Maliki prima e di al-Abadi poi. Dall’altro l’approccio politico dei sauditi eccessivamente intriso di wahabismo ha inclinato i rapporti tra la monarchia e gli Stati Uniti e incoraggiato la repressione sulle minoranze, decretando un relativo successo di Teheran su Riyadh in questo scontro indiretto.
D’altro canto, però, le preoccupazioni dei Saud in merito ad un contraccolpo di questi eventi sull’home security e su di una più generale instabilità si sono rivelate fondate dal momento che, all’interno di questo tête-à-tête politico e settario, si sono inseriti gruppi islamisti terroristici, ISIS e al-Qaeda su tutti.
Per quanto l’Iran provi ad assolutizzare la propria presenza in Iraq con un dispendio di forze non indifferente a supporto di ogni movimento sciita e per quanto Mohammad bin Salmān sia alla ricerca di un minimo dialogo con i leader iracheni, la situazione appare tutt’ora cristallizzata e lontana da una soluzione duratura.
Questione israelo-palestinese
La questione israelo-palestinese è sì una contesa che sorge dalla rivalità storica tra il mondo arabo e quello sionista, ma l’importanza strategica del territorio ha contribuito a darne una risonanza globale che vede coinvolta, con diversi pesi e misure, tutta la comunità internazionale. Per questa ragione, le due potenze islamiche del Medio Oriente hanno dovuto intromettersi nella disputa, offrendosi come garanti della popolazione musulmana, ma con due posizioni ben differenti.
La pedina più confacente alla destabilizzazione interna di Israele è sicuramente Hamas, il Movimento Islamico di Resistenza con il quale l’Iran è riuscito a colmare la distanza etnico-religiosa ponendo in primo piano la necessità di un sovvertimento popolare appoggiato da una forte ideologia rivoluzionaria. In un contesto in cui le disuguaglianze tra l’identità ebraica e quella arabo-palestinese sono superiori alle divisioni settarie intestine all’Islam, l’Iran riesce ad accantonare il proprio orgoglio persiano-sciita e ad adottare una nuova prospettiva che permette di rendere Hamas un prezioso alleato extra-confine.
Benché la questione dell’identità araba sia cruciale anche in ottica saudita, l’approccio della monarchia verso la questione ha sempre poggiato su toni più pacati e maggiormente propensi alla diplomazia. Comprensibilmente, la volontà di mantenere saldi i rapporti con gli Stati Uniti, primitivi sostenitori di Israele, continua ad escludere la possibilità che Riyadh si avvicini a posizioni estreme come quelle iraniane con il rischio di perdere le posizioni acquisite nel territorio. Infatti, il sostengo moderato ad Hamas e all’OLP e la partecipazione attiva nelle discussioni di pace segnalano che l’obbiettivo principale dell’Arabia Saudita rimane la conquista di un posto privilegiato al futuro tavolo delle trattative per la concessione di un controllo diretto dello sviluppo economico palestinese.
Libano
In Libano lo scontro settario ed ideologico si profila aspro, dopo che i due stati vi hanno esportato la propria rivalità regionale supportando le corrispettive fazioni rivali al fine di aumentare la propria influenza nell’area che si affaccia sul Mediterraneo. Questo però ha solo contribuito ad incrementare il disordine politico e settario e ad indebolire lo state building del Libano, che resta in bilico su un traballante equilibrio etnico-religioso (per legge il Presidente della Repubblica deve essere cristiano, il premier sunnita, il capo del Parlamento sciita).
Tale fragilità deriva in gran parte dalla brutale guerra civile che ha coinvolto il Paese dal 1975 ai primi anni Novanta e dalla sua posizione geografica che lo ha reso una terra di rifugio per le numerose ed eterogenee minoranze in fuga dai conflitti regionali, ma che di fatto lo ha trasformato in un weak state facilmente penetrabile dalla manipolazione di Stati Uniti, Arabia Saudita e Israele contrapposta a quella di Iran e Siria.
Per quanto riguarda l’Iran, l’elemento che ne assicura la supremazia indiretta è rappresentato dal giganteggiare di Hezbollah nella storia del Libano.
Inserita nella discordanza tra chi l’ha bollata come un’organizzazione terroristica e chi l’ha definita un interlocutore politicamente legittimo nel governo libanese, Hezbollah è un’organizzazione politica e partitica nata sotto l’egida del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica che, seguendo la dottrina dell’ayatollah Khomeini, ne ha istruito il percorso e rafforzato la capacità militare. Pertanto, il suo manifesto ideologico ricalca pienamente l’ideologia e la lettura politica della teocrazia sciita iraniana poiché effigia Israele come nemico della democrazia e rigetta ogni forma di assoggettamento o interventismo dall’esterno. Su questi precetti inamovibili si basa il sostegno economico di 200 miliardi annui da parte dell’Iran che, vedendo nel Partito di Dio un’indispensabile attore proxy, ha accresciuto negli anni la costruzione di una struttura di aiuti sociali e scolastici profondamente incentrati sull’aiuto reciproco e sulla fedeltà identitaria.
Dal proprio canto, l’Arabia Saudita, consapevole di non poter contare su un alleato ben riconoscibile, ha sempre tentato di entrare il Libano seguendo una via dottrinale che mira ad espandere il wahabismo all’interno della consistente falange sunnita, attraverso una propaganda che si sostanzia nelle attività del media-center fondamentalista Al-Hayat e che persegue l’obbiettivo di un’islamizzazione del Paese.
L’effettuale coinvolgimento della monarchia in questo scenario risale ai tempi posteri al Tariff Agreement del 1989 che ha permesso l’entrata in gioco di vari attori per il processo di ricostruzione del Paese. L’elemento a favore dei Saud si è incarnato dapprima in Rafiq al-Hariri e, in seguito al suo assassinio per mano di Hezbollah, nel suo successore e figlio Saad, entrambi con doppia cittadinanza saudita-libanese e perciò molto legati alla questione della difesa della comunità sunnita.
In tempi recentissimi, l’Arabia Saudita ha esternato tutte le proprie apprensioni riguardo la relativa supremazia regionale dell’Iran, rintracciando nel cagionevole Libano un fottio di situazioni malleabili.
Questo spiega le dimissioni del Primo Ministro Hariri e del suo ritiro alla corte dei Saud che garantisce il sostegno economico e politico al suo partito, ma che in maniera altrettanto decisa ne controlla le mosse sul campo.
Questi eventi hanno sancito definitivamente la debolezza del ministro sunnita e la sua incapacità di ritagliarsi un maggiore spazio decisionale, permettendo al leader Hassan Nasrallah di tornare con dirompenza sulla scena politica libanese. I discorsi di quest’ultimo hanno comprovato la definizione di Hezbollah come “uno stato dentro uno stato” e l’insofferenza sciita verso gli interventi dall’esterno.
In questo caso, il pragmatismo di Mohammad bin Salmān è deragliato verso scelte poco ponderate che sembrano indirizzate ad una destabilizzazione del Libano.
Infatti, il ritorno in auge di Hezbollah potrebbe richiamare l’intervento armato di Israele, nonché dello stato che, insieme all’Arabia Saudita, teme maggiormente l’espansionismo iraniano e che più potrebbe aiutare Riyadh nel riguadagnare forza contro lo strapotere sciita.
Risulterà perciò determinante come Iran e Arabia Saudita si approcceranno a questi eventi cruciali e quanto spingeranno i propri attori proxy a rimanere su posizioni radicali che possano comprovare la loro egemonia. Finché non si placheranno i drammatici eventi che stanno attualmente investendo il Medio Oriente, nessun reale processo di pace potrà essere intrapreso. E, soprattutto, finché non decadranno le premesse che mantengono vivo un islamismo orientato al settarismo, l’attuale instabilità continuerà ad accompagnare i processi politico-identitari del Medio Oriente.
[alert]Samuele Carlo Ayrton Abrami. Classe 1995, laureato in Scienze Linguistiche per le Relazioni Internazionali presso l’Università Cattolica di Brescia/Milano, ha partecipato al progetto CWMUN alla sede ONU di New York. Si interessa prevalentemente dei processi geopolitici e culturali del MENA, oltre che dei diritti umani nel mondo[/alert]
Bibliografia
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