Sud Sudan: il fattore economico della disputa sul referendum per la secessione

Ne ha parlato la scorsa settimana Franco Londei ad Afriradio, la radio di Nigrizia, intervistato da Fortuna Ekutsu Mambulu: la probabile secessione del Sud Sudan che si deciderà il prossimo 9 gennaio 2011 con un referendum, non riguarda solo una disputa territoriale ma sono in gioco interessi colossali che riguardano diversi Paesi e che potrebbero far scatenare una guerra di proporzioni inimmaginabili.

Secondo Protocollo segue da sempre la situazione in Sud Sudan dove, con l’aiuto di alcune Ong, ha implementato diversi progetti di sviluppo (Ubuntu Africa open connection, assistenza alle strutture governative nel censimento, potabilizzazione dei pozzi di acqua, ristrutturazione del sistema scolastico e ultimamente alcuni progetti compresi nel “progetto multisettoriale Haven”, ecc. ecc.), e ha da sempre sostenuto convintamente la secessione dal Sudan. Non abbiamo mai nascosto le nostre preoccupazioni in merito alla effettiva volontà del Governo sudanese di accettare il risultato del referendum per l’autodeterminazione del 9 gennaio e per questo abbiamo sempre seguito tutti i fatti che ruotavano attorno a questo importante avvenimento, anche quelli all’apparenza ininfluenti. Andando avanti nel tempo le nostre preoccupazioni non si sono certo affievolite, anzi, purtroppo si sono rafforzate. Alcune di queste riguardano proprio il lato economico legato alla più che probabile secessione del Sudan Meridionale. Petrolio, agricoltura ma anche – fatto di cui si parla poco – il controllo delle acque del Nilo, sono fattori che possono scatenare conflitti armati non limitati solo al Sudan ma che potrebbero coinvolgere tutta la regione. Fatti che spesso sono del tutto ignorati sia dalla politica internazionale che dalla grande stampa. Solo negli ultimi giorni la stampa sembra essersi accorta dei rischi che gravano su questa terra. Ieri “La Repubblica” ha pubblicato uno speciale sull’avvenimento mentre nei giorni scorsi se ne sono interessati il Times, la BBC, il Jerusalem Post, il Washington Post e altri giornali. Gli unici che sembrano non interessarsi ai rischi che corre questa bellissima terra sono proprio i politici, l’Onu e l’Unione Europea.

Questione del petrolio: tutti sembrano concentrarsi su questa questione che è senza dubbio la più importante ma non la sola, come vedremo più avanti. Il trattato di pace firmato nel 2005 (CPA – Comprehensive Peace Agreement) stabiliva una sostanziale divisione delle risorse petrolifere tra Nord e Sud Sudan, divisione che nei fatti non è mai avvenuta completamente anche a causa di diverse questioni lasciate aperte. La disputa si è concentrata più che altro sulla regione di Abyei, ricchissima di petrolio e proprio per questo contesa da Khartoum e Juba. Una sentenza del Tribunale Internazionale di Arbitrato lo scorso anno ha di fatto diviso la regione in due: la parte nord, quella ricca di giacimenti attivi e abitata principalmente da popolazioni arabe di etnia Missiriyah, è stata attribuita al nord, mentre quella a sud, ricca di giacimenti non sfruttati ma soprattutto ricchissima di terra fertile, abitata da popolazioni africane di etnia Ngok Dinka, è stata attribuita al Sud Sudan. In teoria quindi la questione sarebbe chiusa. In effetti non è così. I Missiriyah vogliono partecipare al referendum perché vorrebbero impedire la secessione in quanto interessati ai fertili pascoli attribuiti ai Ngok Dinka. Ma dietro ai Missiriyah c’è Khartoum che invece mira ai giacimenti di petrolio compresi nella parte attribuita al Sud.  Nella stessa regione (South Kordofan) vi è un’altra regione fortemente contesa, quella dei Monti Nuba, anche questa ricchissima di petrolio. Qui la situazione è leggermente diversa da quella di Abyei. In teoria questa regione apparterrebbe al Nord Sudan ma in pratica gli abitanti chiedono uno statuto speciale per un periodo di cinque anni per poi decidere, attraverso un referendum, se rimanere in Sudan o passare nel futuro Stato del Sudan Meridionale. Le popolazioni sono prevalentemente arabe e musulmane ma durante il ventennale conflitto che ha contrapposto il Nord al Sud Sudan si sono schierati sempre con il Sud. Non accettavano e non accettano l’applicazione della Sharia, la legge islamica in vigore prima del 2005 in Sudan, abrogata con una modifica alla costituzione nel 2007 e ora soggetta a reintroduzione da parte del Governo di Khartoum. Anche in questo caso Khartoum non vuole perdere i ricchissimi giacimenti petroliferi non ancora sfruttati dei Monti Nuba e per questo arma e finanzia le popolazioni arabe dedite alla pastorizia così come sta facendo in Darfur con i Janjaweed, scatenando una serie di conflitti etnici che negli ultimi anni sono costati centinaia di vittime. Non per niente si parla dei Monti Nuba come il prossimo Darfur. Chiaramente la questione del petrolio è un tantino più complessa ma speriamo di aver quantomeno chiarito i punti più “drammatici” della situazione e il perché è così fondamentale per gli eventi a venire.

Questione agricola: troppo spesso sottovalutata, la questione agricola è invece uno dei punti cardini che interessano Khartoum e uno dei principali motivi per cui il Governo sudanese si oppone alla secessione. Le terre del Sud Sudan sono estremamente fertili. Nella intervista ad Afriradio, Fortuna Ekutsu Mambulu ricordava come un rapporto sull’economia agricola del Sudan spiegava che le terre del Sud Sudan sono talmente fertili che, se adeguatamente sfruttate, potrebbero produrre il cibo necessario a sfamare l’intero continente africano. Khartoum non vuole perdere questa importantissima risorsa che in caso di secessione rimarrebbe interamente al Sudan Meridionale.

L’acqua del Nilo: forse uno dei punti più controversi della questione sudanese. Come abbiamo spiegato in questo articolo, l’Egitto è il beneficiario di un accordo risalente al 1929 in base al quale l’afflusso delle acque del Nilo verso la terra dei faraoni deve ammontare a 55,5 miliardi di metri cubi di acqua. Per questo ha diritto di veto su qualsiasi sbarramento venga fatto a monte del Nilo e sui suoi affluenti, in particolare sul Nilo Bianco e sul Nilo Azzurro. Negli ultimi anni gli Stati a monte del Nilo, in particolare Etiopia, Uganda, Tanzania, Rwanda e Kenya, hanno chiesto più volte, senza successo, di rivedere quel trattato che impedisce loro di sfruttare le potenzialità idroelettriche del Nilo con la costruzione di dighe e sbarramenti. Negli ultimi mesi Uganda ed Etiopia hanno rotto gli indugi e hanno iniziato a costruire impianti idroelettrici sul Nilo Bianco (Uganda) e sul Nilo Azzurro (Etiopia) per garantirsi il fabbisogno energetico. Il Sud Sudan, attraversato dal Nilo Bianco, si è schierato con questi Paesi anche perché il Power Project studiato dagli esperti di Banca Mondiale prevede la costruzione di tre piccole centrali idroelettriche lungo il corso del Nilo Bianco (che qui chiamano Mountain Nile) e di due lungo il corso del Nahr Subat, altro affluente del Nilo che nasce nei monti dell’Etiopia. La cosa ha fatto infuriare l’Egitto che si è schierato apertamente con il Sudan contro la secessione del Sud Sudan convincendo anche la Lega Araba a fare altrettanto.  L’Egitto, in caso di nuovo conflitto tra  Nord e Sud Sudan, potrebbe quindi diventare un prezioso alleato militare di Khartoum. Solo che un conflitto del genere coinvolgerebbe giocoforza anche Uganda ed Etiopia, quest’ultima già da diversi mesi ai ferri corti con l’Egitto, trasformando una guerra locale in un conflitto regionale.

Come si vede sono tanti i motivi per cui il Sudan si oppone alla secessione del Sud, motivi che in alcuni casi coinvolgono importanti ed influenti attori esterni. La Cina e la Lega Araba nella questione petrolifera, l’Egitto, l’Etiopia e l’Uganda nella questione delle acque del Nilo. Separatamente poi ci sono le alleanze strategiche come quella tra Israele e il Governo di Juba alla quale si contrappone quella tra il Sudan e la Libia, il tutto per lo sfruttamento delle potenzialità agricole del Sud Sudan e per gli investimenti miliardari che saranno possibili dopo l’avvenuta secessione.

Concludendo, l’intricata questione del referendum in Sud Sudan non è solo una questione petrolifera ma è un insieme di fattori (compreso quello religioso di cui parleremo in un altro capitolo) che rendono la regione potenzialmente esplosiva. Lo capiranno i grandi della terra?

Secondo Protocollo