C’era un posto a Gulu, in Nord Uganda, dove io andavo a dormire ogni volta che mi trovavo a passare da quelle parti. Era un hotel scalcinato “l’Africa Inn Hotel” ma dignitoso, proprio davanti alla stazione degli autobus.
In tanti mi chiedevano perché non andavo negli hotel usati dagli altri cooperanti, certamente più “decenti”, ma io in quel posto potevo avere tutte le informazioni che volevo dalla gente Acholi, non da terze persone o dall’esercito. Poi potevo vedere la quotidiana “migrazione dei bambini”.
Li chiamavano “OringAyela” ovvero anime in fuga, i bambini che ogni sera i loro genitori dai villaggi attorno a Gulu mandavano in città per non dare modo ai ribelli dell’LRA (Lord’s Resistence Army) di Joseph Kony di rapirli e trasformarli in bambini soldato.
In ogni città del nord Uganda ogni sera al tramonto una lunga fila di bambini arrivava per dormire in sicurezza, poi la mattina tornavano ai loro villaggi consapevoli che avrebbero potuto trovarli bruciati e i loro genitori uccisi.
Tante volte mi sono chiesto con che animo i loro genitori guardavano partire quei bambini e quante volte quelle creature non hanno ritrovato i loro genitori al ritorno. Erano anni di massacri.
Milioni di rifugiati interni. A Gulu c’era il più grande campo profughi del nord Uganda. Ma anche a Lira, molto più a sud. E poi a Kampala, nella capitale ugandese, uno slum immenso dove i morti per malaria o per qualsiasi malattia li seppellivano di fianco alla capanna, dove le fognature erano a cielo aperto e il puzzo era insopportabile.
Mi sono tornate in mente queste immagini perché ho sentito il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi chiedersi come poteva un genitore mettere un figlio in una barca e poi ho immaginato i campi in Siria, quegli enormi agglomerati dove una zanzara ti può uccidere. Mi è venuto in mente quella odiosa, precipitosa e vigliacca fuga dell’occidente dall’Afghanistan e a come abbiamo lasciato milioni di persone in mano del peggior estremismo islamico sulla Terra.
Caro ministro, un genitore può, un genitore deve poter pensare un mondo migliore per i propri figli. Io mi ci immedesimo in quel genitore che carica il proprio figlio su queste barchette o addirittura sui canotti. Io mi ci immedesimo in quella donna che stingendo in grembo il proprio bambino sale su queste trappole mortali. Quante volte nei campi profughi ho visto la disperazione negli occhi, la presa di coscienza che non potevano scappare da quel posto. Farebbero, fanno qualsiasi cosa per fuggire da quegli inferni.
Non mi si fraintenda, non sono per niente favorevole all’immigrazione incontrollata o ai viaggi della speranza (forse più della disperazione). Nel 2000, ventitre anni fa, la mia organizzazione profetizzava quello che sta avvenendo oggi e proponeva un progetto per “aiutarli a non partire”. I tagli (globali) alla cooperazione non hanno permesso a quel progetto e a tanti altri come quello di fare il suo sporco dovere, cioè aiutarli a casa loro. Oggi ne pagano il prezzo, loro non noi. Loro, caro ministro Piantedosi, non noi.
Ed è da questo che dobbiamo partire, perché se non ci assumiamo la responsabilità di quello che sta avvenendo allora è inutile che piangiamo lacrime di coccodrillo sui morti di Cutro. Su quella barca ce li abbiamo messi noi. Noi abbiamo spinto quei genitori a mettere i propri figli su quel barcone e su tutti gli altri che verranno.